venerdì 14 febbraio 2025

la prima classe (racconto breve)

 


Ebbe poco tempo. Precisamente: venticinque minuti.

Il treno ritardò vergognosamente quella mattina.

Subbuglio!

Scioperi!

Il personale di bordo decimato.

Il viaggio gli sembrò eterno e scomodo, nonostante la medesima comodità di sempre: carrozza in prima classe; le poltroncine in pelle con la velina bianca sul poggia testa; il tavolino in formica cenere lucido; la presa di corrente al suo fianco; il posto riservato al finestrino (fra i suoi vezzi questo era il più rispettabile).

Tutto simile, non uguale, però!

C’era un olezzo sinistro quella mattina nell’aria e quel treno non era lo stesso.

Si ravvivò in lui la sensazione caotica di un disordine.

Qualcosa era “fuori posto”!

A questo pensiero dovette arrendersi al forte prurito che si ostinava ad accentuargli caos.

Svelto si chinò.

Nervosamente grattò il malleolo del piede sinistro.

Prurito da cavare la scarpa!

Lo fece! La tolse! Giusto il tempo di risolvere quel fastidioso incidente.

Fu guardato.

Smise! Si ricompose. La scarpa tornò al suo posto, coreografia precisa.

La signora di fronte lo sgualciva con lo sguardo. Occhi vilipesi da occhiali satinati, come cotti al vapore, inopportuni.

Lo fissava senza pudore quella donna mascherata. Addizione volgare di trucco pletorico e capelli raffermi di lacca. Borsetta troppo piccola per quel manierismo smisurato, forse conteneva soltanto rossetti color semaforo o, peggio: occhiali di scorta più riprovevoli di quelli che indossava.

Imbarazzava guardarla. Imbarazzava essere guardato da lei.

Il prurito incalzò!

Si grattò nuovamente. Non tolse la scarpa questa volta; la tenne.

Fu visto ancora.

Altri occhi. Secchi, ruvidi, di sotto i sopraccigli aghiformi e grigi. Il signore al suo fianco si spazientì. Si scansò per far posto al nostro uomo che si inclinava.

Quel signore accanto gli ricordò un vecchio amico, con il quale aveva discusso abbondantemente anni prima. Gli percosse nel petto un tonfo scuro. Gli stessi occhi grigi come il ghiaccio e lo sbuffo del naso insofferente. Un cardigan di lana cotta lo mostrava più vecchio di quel che era. Il pizzetto al mento…. Grottesco!

Di nuovo un prurito impertinente! Come ortiche!

Sfregò veloce infilando le dita nel calzino.

Sollievo! Ah sollievo!

Si ricompose. Cercò di rilassarsi.

Tutto assumeva un’impronta faticosa e maldestra.

Il tempo inghiottiva gli attimi restanti con la fame di un alligatore.

Ebbe ancora meno tempo!

Si abbreviava la distanza con il suo appuntamento, del quale nessuno sapeva alcunché.

Anche noi che lo osserviamo non conosciamo ragguagli in merito a questo.

Sappiamo soltanto che quell’uomo era divorato dalla fretta e il suo cervello sbatacchiava nel vuoto caotico e duro dell’ansia. Sappiamo che il suo prurito era costante, infimo.

Tutto ciò che sappiamo è che quell’uomo era spaventosamente in ritardo!

La prima classe trasportava un uomo accorato, che lottava con i secondi e con i suoi pizzichi.

Si palesava, il prurito, come l’artiglio di un diavolo, cocente - perseverante.

Sfilò il braccio di sotto il cappotto. Provò ad allungarsi da basso, verso il piede.

Mantenne la colonna eretta, nonostante la flessione laterale, memore del signore accanto.

Quasi avesse coscienza del corpo. Poté controllare i movimenti.

No! non aveva affatto consapevolezza. Piuttosto si era identificato con quel gesto clandestino.

Imbarazzato perché stava compiendo un furto! Ladro!

Era evidentemente in torto. Colto sul fatto.

Quel movimento doveva essere svolto in assenza di rumore; totale invisibilità.

Scivolò, dunque, lungo il polpaccio, le dita feline a caccia di preda.

Scese accurato e lento, come si calasse in un pozzo.

Sentì il fondo! Toccò il malleolo, divampante di pizzicore.

Fu fiero e sardonico.

Respirò.

Piantò le dita! Sentì un potere che nutriva a dismisura il bisogno di grattare quell’affezione pruriginosa.

Compiaciuto tornò. Riassunse la postura eretta, quella dignitosa.

Non era più un ladro da stanare.

- ma questa era l’ultima volta che si sarebbe grattato – si motivava persuadendo la vergogna.

Si rilassò.

Precipitò dentro un grande sospiro che gli sgonfiò il pallone toracico eccitato.

Mansueto, nella certezza della sua poltrona, riaccorpava l’uomo illustre che era.

D'altronde non sappiamo nulla di lui, ma è noto che era persona rispettabile e gran lavoratore.

Pensò di getto al tempo rimanente. Di certo pochissimo….

Subito prurito! Il tempo stretto mordeva il malleolo come un roditore!

Grattare! Grattare!

Avrebbe dovuto prendere un taxi appena arrivato in stazione. Impossibile camminare come faceva sempre, fra i viali alberati trafitti dal sole.

Quella mattina la sua destinazione era differente dal solito e, come già detto, inconosciuta! Non poteva permettersi errori!

Niente sosta al solito bistrot.

Niente quotidiano. Lo avrebbe acquistato solo più tardi.

Un sobbalzo del treno lo fece tornare al centro della sua carrozza.

Fissò coloro che lo stavano osservando.

Si grattò modesto, imperdonabile la sua ossessione.

Nei loro occhi si vide più magro del solito. Si sentì sciapo.

Il respiro, un singhiozzo sinistro.

Pensò agli abiti, al suo vestiario. Il gessato marrone certo lo invecchiava. Avrebbe dovuto indossare l’abito nero.

Le scarpe non erano lucidate a sufficienza.

Il pantalone sbiadito……. la tintoria non aveva fatto il miracolo.

I suoi pensieri, come lapilli, bruciavano.

Forse i calzini troppo vistosi! Avrebbe dovuto indossare quelli chiari.

E quel prurito! Tormentava le sue considerazioni. Dovette grattare ancora, esausto.

Il sudore irrigò il collo. Si profuse in breve lungo la schiena come formiche irrefrenabili.

Biancore. Pelle avvizzita. Un condotto vuoto e buio, la gola.

Le spalle fredde!

Ora vedeva tutto, ma non sentiva più niente!

Il prurito scomparso per un istante dai sensi.

Pochi elementi abbiamo a disposizione per conoscere il nostro uomo e, ormai, pochissimo tempo; il treno arriverà a destinazione in brevi attimi e lui dovrà scagliarsi fuori in tutta fretta. Così non avremo più nulla di lui. La sua storia si allontanerà insieme al suo appuntamento misterioso.

Come si giustifica la vita insigne del nostro uomo con questa tumultuosa esperienza?

Come si giustifica la dignità di un essere umano rispetto a tanto fastidio?

Il timore per l’appuntamento lo turbava tanto quanto grattarsi.

Lo faceva sentire nudo, per quanto stringesse i suoi abiti confortevoli.

Poco importa sapere di quest’uomo.

Sappiamo già tutto!

La vita di un essere umano è nelle sue nevrosi….

 

Si aprirono le porte.

La folla impedì il passaggio.

Il nostro uomo si fece strada con l’ombrello, come spada aguzza, la valigetta come scudo.

Un guerriero antico, il nostro uomo contemporaneo.

Frattanto si grattava, inciampando nella corsa.

Il prurito, ancora vivo, lo rendeva eroe di un conflitto tutto suo.

Nel mare dei piedi camminanti, si distingueva il volo peregrino di un uomo armato del suo costume contemporaneo.

L’uomo in ritardo si grattava gesticolando al taxi.




domenica 9 febbraio 2025

Clara e le ginestre (racconto breve)


 

Clara s’inginocchiava per sentire la vita brulicante.

Non era per lei un gesto di sottomissione; né voleva tornare piccola. In ginocchio le pareva di respirare più volentieri.

La gravità l’affascinava: il corpo chiamato in terra, sospinto al servizio della natura sì forte.

Da basso la vita si potenziava per la relazione più stretta con le cose, a ognuna delle quali attribuiva fragranza e colori propri.

Giaceva rannicchiata, con gusto. Avida di una conoscenza più grezza.

Quel pomeriggio Clara scriveva di quel che la emozionava. In ginocchio sul campo lucido di ginestre, il taccuino peccato d’inchiostro, la ragazza si dileguava nel campo opaco dei sogni vibranti. Senza saperlo si cristallizzava in lei la storia di una donna.

Perduta! Mescolata fra tutte quelle parole nuove gettate sulla carta.

Un soffio di un vento leggero di fine maggio, la trafittura sul dorso umido.

Si accorse di aver sudato. Capì di essere madida e accettò l’esperienza. Chiuse gli occhi e attese.

Il vento cessò e Clara percepì tutta la presenza dell’estate; i giorni precedenti erano stati piovosi e freschi.

Ora, in quel pomeriggio, si presagiva l’immettersi della stagione calda.

Le ginestre, che lei amava perché spregiudicate, si aprivano come gocce di sole, di un giallo incandescente e finto, da ingannare la verità.

Inginocchiata fra quei cespugli gonfi di colore era compresa.

La eccitava la possibilità che l’estate offriva di sentire gli insetti sul viso: il ronzio delle api, l’ottusità delle mosche sulle labbra, i calabroni rombanti.

Tutto questo la svegliava; la sua energia, come un vortice, addensava la forma del suo corpo. C’era in lei un cuore pulsante che non cessava di singhiozzarle dentro. Clara ne andava pazza!

Quel pomeriggio si accese dattorno un coro di cicale feroce, interminabile. La ragazza non poté più scrivere e il taccuino subì subitanea la sua assenza.

Spense la curiosità di conoscere le bestie che gridavano e si concesse di essere semplicemente permeata di quella barriera sonora.

Le cicale non erano più solo insetti; ben presto divennero profondo smarrimento.

Quel chiasso, così uniforme, penetrante, la proiettò nell’abisso ove percepì l’ipnosi.

Nuovo sudore. Sentì i piedi arricciati, come marmo scolpito, segno della tensione indomita. Cambiò faticosamente postura! Si ritrovò seduta, le gambe cercavano sollievo. Era rimasta in ginocchio per troppo tempo; le articolazioni dolevano così tanto che sentì incepparsi il respiro; un cappio ristretto.

Spalancò la bocca e si affrettò a ingerire tutta la vita che poté, prima di sdraiarsi sotto i cespi di ginestre. Inconsistente, fu preda di un sonno titano.

Riprese coscienza e tutto era perfettamente come lo aveva lasciato: le api, le ginestre provocanti, il vento di fine primavera… eppure tutto aveva un altro sapore.

Clara, nel suo nuovo silenzio monumentale, percepì la crudezza delle cose.

La vita che la circondava: spietata, diretta, priva di interpretazioni.

Sentì nel petto un tuono frantumarle la pelle, dal cui squarcio uscirono tossine fumose, le stesse che le avevano rivestito il cuore fin ora. Fu sollevata! Tanta verità assieme la rendeva una creatura primigenia.

Purificata dall’esperienza interiore odorava le cose. La mente cercava familiarità nei profumi. Tutto sapeva d’altro, forse non vi era più alcun odore. Neutra, la vita, era spaventosa e attraente! Le cose del mondo gialle, più delle ginestre; le sentiva in lei luminose e giuste.

Come un segugio strofinò il naso sulle braccia. La pelle non faceva alcun odore, come le cose del mondo.

Annusò le mani, i capelli. Cercò responso fra le trame degli indumenti.

Stessa neutralità delle cose e del mondo, con il quale si confuse.

Depauperate, le gerarchie venivano meno!

Tutto si riconosceva nel medesimo abbraccio divino.

Clara sentì il profumo santo del creato.

Senza saperlo seppelliva le ciocche d’erba sotto piccoli cumuli di terra.

Dita abili impastavano il mistero della terra fredda.

Le unghie scaltre, curiose, intrise di terriccio moro; contrasto con il corpo, più bianco di sempre.

Corpo di bambina…

le sembrò…

Tutto accadeva adesso! Così neutro, così vivo! Clara si guardava intorno con i suoi primi occhi.

Di colpo vide, accanto a sé, il taccuino abbandonato.

Lo afferrò.

Lesse ciò che prima di quell’evento epifanico aveva scritto.

“Sciocche considerazioni!” - gridava la sua noia.

“Soltanto emozioni” - il giudizio divorò, ferino, l’esperienza estatica!

Giunse, allora, una frase dal passato:

<<oggi è un’altra giornata in cui vai bene così come sei>>.

“Così come sono…” - si disse, già rapita da pensieri vetusti.

“Dunque, come sono?” - guardò le ginestre; cercava risposte.

“vado bene? A chi? A me, credo” - si dibatté nella voracità degli automatismi.

Il giudizio!

Flagello e consolazione!

Eterna replica nella sua mente….

 

Clara ripeté l’umana onta, separandosi dallo spirito.

Si alzò.

Salutò i suoi fiori, parimenti faceva ogni pomeriggio.

Le ginestre tingevano la sua dipartita…. già sopite nel giallo mesto del tramonto.




giovedì 12 dicembre 2024

la cura


 due mondi avvincigliati appartengono all'anima:


la carne 

e

il cuore 


Fa' in modo di custodire il secondo,

con amore di vestale protettrice del Sacro Tempio;

e carezza di continuo il primo,

ché l'incarnamento sia rigonfio di attenzioni 



lunedì 28 ottobre 2024

per un po' di vita

.. ancora lacrime 

lacrime sul fuori,

a solcare l'epigrafe nel volto umile.


Lacrime ancora 

per raccontare la fresca delusione.


Traslucide lacrime 

ove lo sguardo s'intinge d'abissi.


Quest'anima,

insaziata di lacrime, s'arruffa e combatte

per un po' di vita 


Basterebbe risorgere,

anche oggi,

celebrando il Mistero!!


martedì 27 agosto 2024

cuore tamburo

 In certi fantasmi si annidano gl'impasti argillosi del cuore tumido.

Svolazzano, i fantasmi, come angeli.

Sorridono prima delle tenebre, prima di languire nei sughi freddi del buio.

Il cuore li sente pervenire dai filamenti arteriosi..ed ecco: il suo tamburo ritma un veloce, sordo boato, visibile nel petto scoppiante.

Se un fantasma scopre il galoppo del cuore pazzo, subito, come ape avida, se ne nutre.

In questo tumulto di corpo animale io non so scegliere!!

Tanta è la voglia di abbracciare il mio carnefice come un vecchio amico, di ritrovarmi, amica nuova.

Senz'armi è possibile solo arrendersi al tremore sapido (si vive per paura?).

Zitta, aqquattata nel cantuccio dei miracoli, attendo risposte come secchi d'acqua ghiaccia..

..ma solo schiere di fantasmi annodati fra loro cavalcano la pelle..

..sono loro la risposta?..


venerdì 21 giugno 2024

la promessa

 


..giungeva all'albero fiorito con incanto:

"se ti accarezzo mi fai entrare?"

L'albero non rispose!


morti in terra

 

Chiudo gli occhi, senza felicità!

Sono cieca, di una cecità palustre.

Chiudo questi miei occhi perché non siano testimoni,

per proteggermi (o per viltà?).

Sotto le palpebre serrate soffia il grido rauco: Salva!

Ma tutto questo è già dentro,

violata, compromessa!!

Non saprò mai più cos’è un uomo.

Indigeribile, il boccone stopposo che mi s'è ficcato in cuore.

Chiudo gli occhi lividi, per amare questo dolore nelle cavità più intime, come un diario segreto chiude a chiave i suoi pensieri umidi.

In tutte le morti, in questa terra, c’è la mia arroganza di aver capito la vita.


escatologia dell'umana preghiera

 

Aveva pregato molto nella sua adolescenza, alla rinfusa, senza un reale sostegno che non provenisse dall'intuizione imberbe di creatura remota.

Si rassomigliava nei pianti pluviali che le ingombravano il viso. 

Origliava le grida "felici", le voci nel mondo fuori campo e non si cavava il coraggio d'esserne parte.

Un inganno, il coraggio.

Un prestigio raffinato, di cui era spuria?

Era nulla! Senza coraggio: il nulla!

Ecco che piangeva e pregava rinnovando riti.

Pregare fu l'unico atto di puro coraggio, un'acrobazia risoluta che l'avvicinava al mistero,

laddove le risposte giungevano fresche come lacrime oceaniche.

Il nulla, quello spazio bianco dentro il cuore sgarbato, rammemora oggi con consolazione.


severe stagioni

 

pressappoco trascorsero…. 

epoche di paralisi emozionale,

tutto quel tempo recrudescente e mai un prolasso del cuore. 

Nel "sonno" le possibilità di esistere e bleffare gratificano ogni volgarità. 

Un risveglio atipico, soggiogato alle nuove leggi: stagioni severe, prudenza!

“Avevi la luna fra le mani, ti dilegui con i suoi chiaro scuri e mi lasci nuova”!

Chiassosi, rubicondi sorrisi,

mi rivelano sincera.


anima e corpo

 


Così il corpo, diafano, cerca di rendersi visibile all'anima:

disadorno, ch'ella possa penare nel sugo degli umori.

Il digiuno incendierà la necessità dell’una per l'altro,

come la sete si riposa nell’acqua


mercoledì 29 maggio 2024

un grido sul cielo (racconto breve)

 


Francesca è appesa allo strapiombo roccioso, implacabile giudice del suo destino.

Sotto di lei: maglie di sassi; un cimitero plumbeo di piccoli teschi di pietra; poco più in là: il mare placido di luglio, diafano, imparziale.

La precarietà della sua esistenza rende cara a questa ragazza, quanto mai prima, la vita.

Fra tanto castigo, il rituale di sopravvivenza intona preghiere sgomente, urlate dalla pelle al sole bruciante.

Francesca ricorda di esistere!

Senza preavviso, mentre ogni cranio di sasso laggiù, a quindici metri di distanza, spalanca le fauci grigie in attesa della preda volante, il fulmine di un’immagine: Giorgio le chiede di finirla con queste pericolose prove d’affetto! Lo fa investendo la ragazza di ricordi che, puntualmente, incidono con un timbro indelebile la mente compromessa – non è certo la prima volta. Negli attimi che scandiscono la scena drammatica a molti metri sopra la schiuma delle onde, i ricordi si palesano semplici e puri, proprio come quel mare che se ne frega di tanto pericolo e prosegue la semplicità del suo andirivieni. La nostra fanciulla, ostinata a scalare quella montagna marina di preistoriche dimensioni vuole raggiungere la vetta più alta, sedersi lassù e librare, dentro l'immenso, la memoria del caro fratellino.

Da quando si era trasferita con la famiglia sull'isola, trascorreva le giornate appigliata alle rocce. Dapprima si arrampicava sugli scogli accedendovi dall'acqua per poi salirci sopra, come un geco in bikini. La severità del suo allenamento non precludeva di condividere la pratica con Margherita, la sorella maggiore. A volte era possibile anche divertirsi; quel piccolo spazio di gioco dentro l’azzurro della Grecia le distraeva dal fardello perpetuo dei ricordi. In seguito, il corpo sempre più allenato di Francesca, chiedeva nuove aspirazioni, obiettivi più audaci, una meta che appagasse quel dolore insopportabile che era la morte di Giorgio. Soltanto lei ambiva a cambiare quello stato inanime del suo profondo abisso; - era necessaria un’azione potente per spezzare l’incantesimo – si diceva con forte convinzione, come per spronare la voluttà che si eclissava dietro le tende corvine della depressione. Margherita, all'opposto, non propendeva per l’azione “dura” e, in generale, non era affatto ambiziosa; si accontentava di assecondare la sorella, più giovane di sette anni. Le bastava un sorriso di Francesca per appagare la sua rinuncia alla notorietà. Da bambine, la più piccola si esibiva con i pattini a rotelle e Margherita sembrava potesse gioire delle floride abilità dell’altra, semplicemente seduta all’angolo più lontano degli spalti, paziente, senza sogni. Forse per le sue incapacità o, peggio ancora, per il suo declinare la vita, lasciava alla sorellina ogni gloria – lei è brava, vero? – si rivolgeva al padre che le teneva la mano, come a farle sentire che voleva bene a entrambe nella stessa misura.

Adesso Margherita osservava la sorella che, sotto l’incantesimo del dolore, aveva perduto quella brillantezza puerile. Essa si muoveva randagia per vendicare il fratello, determinata a conquistarsi la roccia più grande.

Giorgio era il più piccolo dei tre, ultimo arrivato, un errore profetico? I genitori, allora, erano già troppo adulti per un altro figlio, sicché il piccolo Giorgino, così era solita chiamarlo la vecchia nonna, nacque gracile, di salute dubbia, fra le nebbie avverse di gennaio.

- Io non capisco perché continua a punirmi in quel modo! - s'agitava la madre, preoccupata per le attitudini mendaci del figlio, che si appartava di frequente al bar di fronte alla scuola per saltare alcune ore settimanali, più spesso da quando l'insegnante di religione era stata sostituita dalla nuova, fanatica e illiberale. Giorgio che, ironia della sorte, si avvicinava a Dio più di quanto si potesse sospettare, mentiva a scuola, come a casa. La sua salute era sempre più arrendevole e il suo cuore impazzava al tempo caduco delle ore fatali, più prossime che mai al suono definitivo della fine. I suoi giorni camminavano al ritmo stanco del futuro già scritto, ma questo nessuno di loro ancora lo sapeva con certezza. Alla sua nascita qualche dottore, sì, aveva formulato ipotesi agghiaccianti per l'avvenire del fanciullo; ma l'udito di un genitore non fa entrare talune sonorità, così rimasero solo ipotesi innominabili. Negli anni, però, Giorgio s'infragiliva, senza comprenderne il vero motivo. Tutto in lui pregiudicava quella forza giovanile con cui un ragazzo spranga gli usci del mondo. Il suo incedere era sopito, un cetaceo che avanzava lento sul fondo di un abisso stravagante. Ma quella professoressa proprio non gli piaceva - doveva evitarla - gli aveva suggerito sua sorella Francesca, consigliera e scudo umano del piccolo cetaceo, il quale si auto esiliava al bar, ospitato amorevolmente dai due gestori che ormai da tempo lo avevano preso in cura. Sedeva alla roccaforte del suo tavolino, cuffie alle orecchie – che la città doveva rimanersene fuori dalla sua isola -, un succo di pesca che lasciava puntualmente imbevuto e tanti sguardi subito di là dal vetro, oltre il quale scorgere spie pronte a eliminare le pagine candide della sua condotta scolastica.

- Diamogli tempo, cara! È un'età così complicata; e poi, nelle sue condizioni, meglio non dargli il tormento, non credi? - il padre mediava gli affanni della moglie come il prete, in confessione, addomestica il peccato lieve dispensando il "Pater".

- Ha soltanto paura di vivere! Ecco perché è fallace! – Francesca, lo scudo, non sopportava che la madre insistesse nel considerare Giorgio un problema. Lo difendeva ad ogni costo.

Margherita, invece, osservava queste discussioni familiari dal buio angolo del salotto, in silenzio parsimonioso, come una cieca che vede davanti a sé solo ombre in movimento, macchie indefinibili e paralizza tutto il suo gesto in attesa che qualcuno le racconti la scena. Non s'immischiava mai, se ne guardava bene dal partecipare a quelle che definiva "le dispute dei poveri". Semplicemente osservava gli altri, impronunciata. Curiosità? Paura? Cosa la tratteneva dall'affermare sé stessa? Forse solo incapacità scenica? In fondo la vita è una grande finzione e, certo, Francesca amava calcare qualunque palco, all'opposto di lei, la maggiore, timorosa, è probabile, di essere scoperta nell'interpretare un ruolo. Indossava, suo malgrado, la maschera di bontà caritatevole. Sempre pronta a servire, ubbidire. Sciorinava sembianze di santa, ma dentro di lei qualcosa friggeva, schizzandole grasso dappertutto.

- Io non comprendo questa tua feroce campagna punitiva contro nostro fratello, mamma! - Francesca si agguantava la scena. – per quanto tempo ancora hai intenzione di ferirlo? Papà, ti prego, intervieni! -.

Il padre abbassava gli occhi, il mento e l’orgoglio tutto, come conteso fra due amori, che vanno sostenuti entrambi per non perdere i privilegi dell’uno e dell’altro. – Forse faremmo bene a cambiare argomento, cosa ne pensate? – era l’ultimo proiettile in canna, come solito sprecato senza vittoria. I suoi due amori si colpivano verbalmente, a voci troppo sguaiate perché Giorgio non sentisse, attraverso il muro della cameretta. Com’era possibile non accorgersi che l’oggetto dei loro bisticci era Giorgino, che viveva assieme a loro a pochi metri d’udito? D'altronde la madre non lo avrebbe tenuto quel figlio – un presagio? – era pronta ad abortire dopo l’”errore”. Per giorni si era dibattuta, consultandosi con il marito. Settimane di lacrime confuse, dopo le quali fu proprio lui, uomo pacato e di buone maniere, a prendere l’ultima parola, estraendo dall’albo dei padri l’antica frase – mi piacerebbe tenere il maschietto! -. Quando Giorgio nacque, precario e senza longeve aspettative, lei innescò l’inequivocabile punizione che perdura a tutt’oggi verso quel marito il quale aveva scelto secondo i dettami dell’amore, ma - noncurante dell’istinto di una donna -.

Francesca non permetteva alla madre tanta rabbia; voleva bene al fratello, era il suo miglior avvocato difensore. Così sfoderava tutta la sua arte per disarmare l’accusa. Istrionica e tenace riusciva quasi sempre a venir fuori da quelle dispute leccandosi i baffi, guardava Margherita con furbizia, cercando la sua approvazione e le strizzava l’occhiolino con infantile presunzione, comunicando in tal modo alla sorella che non aveva avuto alcun dubbio sulla sua vittoria, anche questa volta. Gli astanti ascoltavano Francesca, ognuno sedotto dall’incanto speziato che ella profondeva nel salotto. Il movimento generoso del corpo danzava tutto quel boato concettuale che le si esplicava da dentro. La madre, spossata dall’oratoria stregonesca di quella figlia, partorita in tempi migliori di questi, riusciva delicatamente a sbofonchiare: - è possibile che tu abbia ragione Francesca, è possibile -. Si arrendeva, dunque, al match sul ring degli affetti e, come tante altre volte, si alzava dalla poltrona verde bottiglia di finta pelle, puntava con amorevolezza la figlia loquace, un buffetto su quei guanciotti rubizzi e brucianti di giovinezza e con un bacio delicato le riconosceva tutta la vittoria. Poi salutava il pubblico, ammiccando al marito usciva da quella stanza come se non avesse piedi e si dirigeva alle camere, per portare la sua benedizione a quel figliolo, oggetto frainteso e fragile, ultimo cucciolo del branco.

Le quisquiglie serali su Giorgio erano sempre più frequenti; la casa si tingeva troppo spesso di un colore sbiadito e marcescente. Qualcosa scivolava veloce dentro il pericolo. Il povero ragazzo soffriva tanto delle incomprensioni materne quanto per la debolezza del padre, il quale, per non far torto ad alcuno, non palesava quasi mai la sua posizione, dissolvendo sempre più la sua autorevolezza paterna agli occhi del fanciullo, che dopo tutto cercava nel genitore un riferimento robusto. C’erano poi le arringhe infuocate di Francesca in sua difesa - raptus narcisistici della sorella? - che, è probabile, - desiderasse tutta l’attenzione familiare per sé - pensava Giorgio, sentendola guerreggiare con gli artigli affilati della favella. Infine Margherita, con i suoi silenzi cinematografici, veri e propri primi piani d’autore inanimati, profondeva totale e silenzioso distacco, dichiarazione di “non appartenenza”. Tutto questo a Giorgio destava il peso della croce sacrificale. La sua condizione di salute si torceva nelle paludi di una vita inferiore, una di quelle vite designate alla sottrazione di sé stessa, troppo presto, prima del pensabile.

Era di nuovo Natale. Le passeggiate al corso erano comunque le stesse in ogni stagione. Solo che ora nevicava con insistenza e le strade si annullavano in tutto quel bianco.

Quanto bianco sarebbe servito ora per riscrivere una storia familiare? In pochi anni, a casa dei nostri cinque annodati nei lacci dell’affetto, pure i pensieri si erano congelati, ricoperti di una strana glassa ghiacciata che impediva alle loro bocche di comunicare. Giorgio, congelato già da prima di quell’inverno, ora incastonato nel bozzolo del suo nuovo performante lettino medicale – la madre aveva scelto per la degenza parentale – ultimo figlio indesiderato sarebbe stato il primo a desiderare quel luogo da dov’era provenuto, tanto da tornarci fra pochi sonni. I suoi polmoni raccontavano, ora, la vera storia del ragazzo, un autentico tracciato di informazioni sull’arte del vivere. Raccontavano la tristezza, esibita nel corpo tumultuoso della tosse cronicizzata, febbrile. Il torace, esiguo, si spezzava ad ogni escrescenza che pareva tracimare dalle tenebre. Giorgio sputava con dolore tutto l’amore non ricevuto, in quella stanza di casa che non aveva mai sentito tale, con l’assordante clamore della tosse, quasi anelasse a lasciare un pezzetto di sé in quel luogo nel quale solo ora, ironia del fato, poteva esistere veramente.

In primavera, lo schiudersi dei profumi nei campi, mentre le cose del mondo scalpitavano per uscire fuori, l’esistenza di Giorgio, irreversibilmente, si ritirava dentro. Quella vita “sbagliata”, di martedì pomeriggio – il padre cercava di attribuire un senso a quella temporalità – salutava per sempre i suoi affetti, raccolti nella stanza del ghiaccio, ancora intatti, per poco, prima dello schianto.

L’anno successivo alla morte del fanciullo si decise per il viaggio. Doveva essere una meta sconosciuta, priva di ricordi, - fuori dalla patria che li aveva traditi – piangeva ancora, la donna, il suo fallimento materno. Fu proprio lei a proporre quel viaggio, uno shock inebriante per tutti. In quel cerchio silenzioso si stipulava l’accordo corale: i quattro superstiti dovevano “morire” anch’essi in quella casa e concedersi una nuova opportunità altrove – da maggio a novembre, almeno -. La Grecia li avrebbe attesi con la festosa luminescenza del sole caldo e gli effluvi del mirto sempreverde. La nuova Patria mediterranea sarebbe stata la culla del loro secondo principio. In autunno, al loro rientro in Italia, si sarebbero poi trasferiti in altro appartamento, ripuliti – questo faceva parte dell’accordo non detto – da certi fantasmi.

La calura bruciante sbiadisce i ricordi della nostra Francesca, ancora aggrappata alla roccia! I sassi-teschio la tengono d’occhio da basso. Non piange mentre ricorda. Pensa soltanto che - ha ucciso un fratello, lei ora deve vivere -. Pensa a come cavarci la pelle, a come raggiungere la sua seconda “possibilità”. Pensa che nessuno, forse, aveva scalato questa parete poco affabile prima di lei, vanto del sopravvissuto - ma lei ancora non lo era – il pensiero riottoso tentava di dissuaderla. Di nuovo il fratello ammalia tutta la sua attenzione – vendetta del prematuro defunto -: i piccoli polmoni del morto vengono proiettati sul maxi schermo di quello scoglio preistorico, esili e stanchi; e poi l’immagine degli occhi burattati dal liquido della tristezza e, ancora, i disegni arrembanti e imprecisi (Giorgio pastrocchiava spesso il tratto di muro dietro il suo lettino: briciole di arte parietale arcaica, forme semplici, linee grezze, siluette animali; la sua vita era su quel pezzetto di muro nascosto, solo Francesca sapeva). Quei ricordi mordaci svelano improvvisamente, al “geco” appeso al tufo, la vera necessità di vivere. L’impellente risveglio muscolare dirige la ragazza geco, ora scimmia abitata da uno spirito indomito, fino al promontorio, finalmente la cima – salva! – una voce in lei deve ripeterglielo più volte per poterci credere. Tutta la fatica, nell’atto estremo di sopravvivere a un destino che si stava tingendo di nero, trasforma evidentemente il corpo di Francesca, ora cereo, morente. Approdata sul cielo, il baratto fra la morte e la vita è lo svenimento esamine, lassù a quell’altitudine che s’interpone fra il mistero divino e ogni cosa che, sotto di esso, cerca semplicemente di esistere. Sospesa sull’altipiano del mondo, ferita dalla colluttazione con la pietra, esangue e sfranta, conquista piena vittoria sul cimitero dei sassi, che l’attendeva ingordo da basso! La calura della luce perpendicolare è sfrontata sul corpo lungo di Francesca che si discioglie veloce in migliaia di goccioline compatte che tentano sgarbatamente di ricomporsi, come tante particelle di mercurio.

- Ti prenderai un’insolazione – qualcuno sta parlando?

Lontano, come al di fuori di un sogno, la svenuta riconosce suoni umani. Ancora non ha ripreso del tutto coscienza, i sensi non mettono a fuoco la percezione, che rimane sbiadita nella nuvola dei dubbi. Qualcuno – ma chi? – le afferra con dolcezza una gamba; questo particolare, “dolcezza”, le pare chiaro in quel fuligginoso stordimento e sente un’insolita commozione, al tocco della mano sconosciuta. Il corpo di Francesca tenta una ripresa enfatica, quasi un impulso Pavloviano, ma le membra, estenuate e deboli, le impediscono la perfetta verticalità, disequilibrio che la fa cadere nuovamente a terra. La deflagrazione ha lo stesso effetto dell’acqua gelata: uno scoppio di occhi, le pupille protese per la reazione – vanno strofinati quegli occhi senza visuale – e nel farlo l’immagine insabbiata si schiara e diventa fin troppo nota davanti a lei.

L’onomatopea del grido riaccorpa il sudore al mercurio della ragazza: - Giorgio!!!! –.


lunedì 20 maggio 2024

gli amanti longevi

 


.... hanno accordi silenti, indichiarabili ..

Sostengono l'enigma fino al crepuscolo del loro esistere assieme,

due complici di un delitto perfetto.


Il segreto si estende nel tempo,

nutrito d'amore, spettinato da innumerevoli delusioni.


Ognuno dei complici tenta svariate fughe dalla scena del crimine,

senza risolvere mai altrove..

vi è un'attrazione speciale nell'essere complici di un misfatto:

si è salvi solo se uniti per sempre.


Ciò che lega gli amanti longevi:

condividere con amicizia la stessa florida affezione.


mercoledì 15 maggio 2024

una madre


 ....ad ogni modo..

una madre passeggia di consueto i giardini profumati del cuore.

Ne frequenta le primavere, 

gonfie di pigmenti generosi,

quand'anche gli inverni aridi rattristano l'umore.


In quei giardini,

ivi le stagioni si susseguono voraci,

la madre impara ad esser donna.


L'arte di esistere ha l'età dell'esperienza,

sicché la madre è più bella se cerca sé stessa,

laddove s'assenta la prole.


Perché, in fondo,

i figli s'han da regalare al mondo