Francesca è appesa allo
strapiombo roccioso, implacabile giudice del suo destino.
Sotto di lei: maglie di
sassi; un cimitero plumbeo di piccoli teschi di pietra; poco più in là: il mare
placido di luglio, diafano, imparziale.
La precarietà della sua
esistenza rende cara a questa ragazza, quanto mai prima, la vita.
Fra tanto castigo, il
rituale di sopravvivenza intona preghiere sgomente, urlate dalla pelle al sole bruciante.
Francesca ricorda di
esistere!
Senza preavviso, mentre ogni
cranio di sasso laggiù, a quindici metri di distanza, spalanca le fauci grigie
in attesa della preda volante, il fulmine di
un’immagine: Giorgio le chiede di finirla con queste pericolose prove d’affetto!
Lo fa investendo la ragazza di ricordi che, puntualmente, incidono con un
timbro indelebile la mente compromessa – non è certo la prima volta. Negli attimi
che scandiscono la scena drammatica a molti metri sopra la schiuma delle onde,
i ricordi si palesano semplici e puri, proprio come quel mare che se ne frega
di tanto pericolo e prosegue la semplicità del suo andirivieni. La nostra
fanciulla, ostinata a scalare quella montagna marina di preistoriche dimensioni
vuole raggiungere la vetta più alta, sedersi lassù e librare, dentro l'immenso,
la memoria del caro fratellino.
Da quando si era
trasferita con la famiglia sull'isola, trascorreva le giornate appigliata alle
rocce. Dapprima si arrampicava sugli scogli accedendovi dall'acqua per poi
salirci sopra, come un geco in bikini. La severità del suo allenamento non
precludeva di condividere la pratica con Margherita, la sorella maggiore. A
volte era possibile anche divertirsi; quel piccolo spazio di gioco dentro
l’azzurro della Grecia le distraeva dal fardello perpetuo dei ricordi. In
seguito, il corpo sempre più allenato di Francesca, chiedeva nuove aspirazioni,
obiettivi più audaci, una meta che appagasse quel dolore insopportabile che era
la morte di Giorgio. Soltanto lei ambiva a cambiare quello stato inanime del
suo profondo abisso; - era necessaria un’azione potente per spezzare l’incantesimo
– si diceva con forte convinzione, come per spronare la voluttà che si eclissava
dietro le tende corvine della depressione. Margherita, all'opposto, non
propendeva per l’azione “dura” e, in generale, non era affatto ambiziosa; si
accontentava di assecondare la sorella, più giovane di sette anni. Le bastava
un sorriso di Francesca per appagare la sua rinuncia alla notorietà. Da
bambine, la più piccola si esibiva con i pattini a rotelle e Margherita
sembrava potesse gioire delle floride abilità dell’altra, semplicemente seduta
all’angolo più lontano degli spalti, paziente, senza sogni. Forse per le sue
incapacità o, peggio ancora, per il suo declinare la vita, lasciava alla
sorellina ogni gloria – lei è brava, vero? – si rivolgeva al padre che le
teneva la mano, come a farle sentire che voleva bene a entrambe nella stessa
misura.
Adesso Margherita
osservava la sorella che, sotto l’incantesimo del dolore, aveva perduto quella
brillantezza puerile. Essa si muoveva randagia per vendicare il fratello,
determinata a conquistarsi la roccia più grande.
Giorgio era il più
piccolo dei tre, ultimo arrivato, un errore profetico? I genitori, allora,
erano già troppo adulti per un altro figlio, sicché il piccolo Giorgino, così
era solita chiamarlo la vecchia nonna, nacque gracile, di salute dubbia, fra le
nebbie avverse di gennaio.
- Io non capisco perché
continua a punirmi in quel modo! - s'agitava la madre, preoccupata per le
attitudini mendaci del figlio, che si appartava di frequente al bar di fronte
alla scuola per saltare alcune ore settimanali, più spesso da quando
l'insegnante di religione era stata sostituita dalla nuova, fanatica e
illiberale. Giorgio che, ironia della sorte, si avvicinava a Dio più di quanto
si potesse sospettare, mentiva a scuola, come a casa. La sua salute era sempre
più arrendevole e il suo cuore impazzava al tempo caduco delle ore fatali, più prossime
che mai al suono definitivo della fine. I suoi giorni camminavano al ritmo
stanco del futuro già scritto, ma questo nessuno di loro ancora lo sapeva con
certezza. Alla sua nascita qualche dottore, sì, aveva formulato ipotesi
agghiaccianti per l'avvenire del fanciullo; ma l'udito di un genitore non fa
entrare talune sonorità, così rimasero solo ipotesi innominabili. Negli anni,
però, Giorgio s'infragiliva, senza comprenderne il vero motivo. Tutto in lui
pregiudicava quella forza giovanile con cui un ragazzo spranga gli usci del
mondo. Il suo incedere era sopito, un cetaceo che avanzava lento sul fondo di
un abisso stravagante. Ma quella professoressa proprio non gli piaceva - doveva
evitarla - gli aveva suggerito sua sorella Francesca, consigliera e scudo umano
del piccolo cetaceo, il quale si auto esiliava al bar, ospitato amorevolmente
dai due gestori che ormai da tempo lo avevano preso in cura. Sedeva alla
roccaforte del suo tavolino, cuffie alle orecchie – che la città doveva
rimanersene fuori dalla sua isola -, un succo di pesca che lasciava
puntualmente imbevuto e tanti sguardi subito di là dal vetro, oltre il quale
scorgere spie pronte a eliminare le pagine candide della sua condotta
scolastica.
- Diamogli tempo, cara! È
un'età così complicata; e poi, nelle sue condizioni, meglio non dargli il
tormento, non credi? - il padre mediava gli affanni della moglie come il prete,
in confessione, addomestica il peccato lieve dispensando il "Pater".
- Ha soltanto paura di
vivere! Ecco perché è fallace! – Francesca, lo scudo, non sopportava che la
madre insistesse nel considerare Giorgio un problema. Lo difendeva ad ogni
costo.
Margherita, invece,
osservava queste discussioni familiari dal buio angolo del salotto, in silenzio
parsimonioso, come una cieca che vede davanti a sé solo ombre in movimento,
macchie indefinibili e paralizza tutto il suo gesto in attesa che qualcuno le
racconti la scena. Non s'immischiava mai, se ne guardava bene dal partecipare a
quelle che definiva "le dispute dei poveri". Semplicemente osservava
gli altri, impronunciata. Curiosità? Paura? Cosa la tratteneva dall'affermare
sé stessa? Forse solo incapacità scenica? In fondo la vita è una grande
finzione e, certo, Francesca amava calcare qualunque palco, all'opposto di lei,
la maggiore, timorosa, è probabile, di essere scoperta nell'interpretare un
ruolo. Indossava, suo malgrado, la maschera di bontà caritatevole. Sempre pronta
a servire, ubbidire. Sciorinava sembianze di santa, ma dentro di lei qualcosa
friggeva, schizzandole grasso dappertutto.
- Io non comprendo
questa tua feroce campagna punitiva contro nostro fratello, mamma! - Francesca
si agguantava la scena. – per quanto tempo ancora hai intenzione di ferirlo?
Papà, ti prego, intervieni! -.
Il padre abbassava gli
occhi, il mento e l’orgoglio tutto, come conteso fra due amori, che vanno
sostenuti entrambi per non perdere i privilegi dell’uno e dell’altro. – Forse
faremmo bene a cambiare argomento, cosa ne pensate? – era l’ultimo proiettile
in canna, come solito sprecato senza vittoria. I suoi due amori si colpivano
verbalmente, a voci troppo sguaiate perché Giorgio non sentisse, attraverso il
muro della cameretta. Com’era possibile non accorgersi che l’oggetto dei loro
bisticci era Giorgino, che viveva assieme a loro a pochi metri d’udito? D'altronde
la madre non lo avrebbe tenuto quel figlio – un presagio? – era pronta ad
abortire dopo l’”errore”. Per giorni si era dibattuta, consultandosi con il marito.
Settimane di lacrime confuse, dopo le quali fu proprio lui, uomo pacato e di
buone maniere, a prendere l’ultima parola, estraendo dall’albo dei padri
l’antica frase – mi piacerebbe tenere il maschietto! -. Quando Giorgio nacque, precario
e senza longeve aspettative, lei innescò l’inequivocabile punizione che perdura
a tutt’oggi verso quel marito il quale aveva scelto secondo i dettami
dell’amore, ma - noncurante dell’istinto di una donna -.
Francesca non permetteva
alla madre tanta rabbia; voleva bene al fratello, era il suo miglior avvocato
difensore. Così sfoderava tutta la sua arte per disarmare l’accusa. Istrionica
e tenace riusciva quasi sempre a venir fuori da quelle dispute leccandosi i
baffi, guardava Margherita con furbizia, cercando la sua approvazione e le
strizzava l’occhiolino con infantile presunzione, comunicando in tal modo alla
sorella che non aveva avuto alcun dubbio sulla sua vittoria, anche questa
volta. Gli
astanti ascoltavano Francesca, ognuno sedotto dall’incanto speziato che ella
profondeva nel salotto. Il movimento generoso del corpo danzava tutto quel
boato concettuale che le si esplicava da dentro. La madre, spossata
dall’oratoria stregonesca di quella figlia, partorita in tempi migliori di
questi, riusciva delicatamente a sbofonchiare: - è possibile che tu abbia
ragione Francesca, è possibile -. Si arrendeva, dunque, al match sul ring degli
affetti e, come tante altre volte, si alzava dalla poltrona verde bottiglia di
finta pelle, puntava con amorevolezza la figlia loquace, un buffetto su quei
guanciotti rubizzi e brucianti di giovinezza e con un bacio delicato le
riconosceva tutta la vittoria. Poi salutava il pubblico, ammiccando al marito
usciva da quella stanza come se non avesse piedi e si dirigeva alle camere, per
portare la sua benedizione a quel figliolo, oggetto frainteso e fragile, ultimo
cucciolo del branco.
Le quisquiglie serali su
Giorgio erano sempre più frequenti; la casa si tingeva troppo spesso di un
colore sbiadito e marcescente. Qualcosa scivolava veloce dentro il pericolo. Il
povero ragazzo soffriva tanto delle incomprensioni materne quanto per la
debolezza del padre, il quale, per non far torto ad alcuno, non palesava quasi
mai la sua posizione, dissolvendo sempre più la sua autorevolezza paterna agli
occhi del fanciullo, che dopo tutto cercava nel genitore un riferimento robusto.
C’erano poi le arringhe infuocate di Francesca in sua difesa - raptus
narcisistici della sorella? - che, è probabile, - desiderasse tutta
l’attenzione familiare per sé - pensava Giorgio, sentendola guerreggiare con
gli artigli affilati della favella. Infine Margherita, con i suoi silenzi
cinematografici, veri e propri primi piani d’autore inanimati, profondeva
totale e silenzioso distacco, dichiarazione di “non appartenenza”. Tutto questo
a Giorgio destava il peso della croce sacrificale. La sua condizione di salute
si torceva nelle paludi di una vita inferiore, una di quelle vite designate
alla sottrazione di sé stessa, troppo presto, prima del pensabile.
Era di nuovo Natale. Le
passeggiate al corso erano comunque le stesse in ogni stagione. Solo che ora
nevicava con insistenza e le strade si annullavano in tutto quel bianco.
Quanto bianco sarebbe
servito ora per riscrivere una storia familiare? In pochi anni, a casa dei
nostri cinque annodati nei lacci dell’affetto, pure i pensieri si erano
congelati, ricoperti di una strana glassa ghiacciata che impediva alle loro
bocche di comunicare. Giorgio, congelato già da prima di quell’inverno, ora incastonato
nel bozzolo del suo nuovo performante lettino medicale – la madre aveva scelto
per la degenza parentale – ultimo figlio indesiderato sarebbe stato il primo a
desiderare quel luogo da dov’era provenuto, tanto da tornarci fra pochi sonni. I
suoi polmoni raccontavano, ora, la vera storia del ragazzo, un autentico
tracciato di informazioni sull’arte del vivere. Raccontavano la tristezza,
esibita nel corpo tumultuoso della tosse cronicizzata, febbrile. Il torace, esiguo,
si spezzava ad ogni escrescenza che pareva tracimare dalle tenebre. Giorgio
sputava con dolore tutto l’amore non ricevuto, in quella stanza di casa che non
aveva mai sentito tale, con l’assordante clamore della tosse, quasi anelasse a
lasciare un pezzetto di sé in quel luogo nel quale solo ora, ironia del fato,
poteva esistere veramente.
In primavera, lo
schiudersi dei profumi nei campi, mentre le cose del mondo scalpitavano per
uscire fuori, l’esistenza di Giorgio, irreversibilmente, si ritirava dentro.
Quella vita “sbagliata”, di martedì pomeriggio – il padre cercava di attribuire
un senso a quella temporalità – salutava per sempre i suoi affetti, raccolti
nella stanza del ghiaccio, ancora intatti, per poco, prima dello schianto.
L’anno successivo alla
morte del fanciullo si decise per il viaggio. Doveva essere una meta
sconosciuta, priva di ricordi, - fuori dalla patria che li aveva traditi –
piangeva ancora, la donna, il suo fallimento materno. Fu proprio lei a proporre
quel viaggio, uno shock inebriante per tutti. In quel cerchio silenzioso si
stipulava l’accordo corale: i quattro superstiti dovevano “morire” anch’essi in
quella casa e concedersi una nuova opportunità altrove – da maggio a novembre,
almeno -. La Grecia li avrebbe attesi con la festosa luminescenza del sole
caldo e gli effluvi del mirto sempreverde. La nuova Patria mediterranea sarebbe
stata la culla del loro secondo principio. In autunno, al loro rientro in
Italia, si sarebbero poi trasferiti in altro appartamento, ripuliti – questo
faceva parte dell’accordo non detto – da certi fantasmi.
La calura bruciante
sbiadisce i ricordi della nostra Francesca, ancora aggrappata alla roccia! I
sassi-teschio la tengono d’occhio da basso. Non piange mentre ricorda. Pensa soltanto
che - ha ucciso un fratello, lei ora deve vivere -. Pensa a come cavarci la
pelle, a come raggiungere la sua seconda “possibilità”. Pensa che nessuno,
forse, aveva scalato questa parete poco affabile prima di lei, vanto del
sopravvissuto - ma lei ancora non lo era – il pensiero riottoso tentava di
dissuaderla. Di nuovo il fratello ammalia tutta la sua attenzione – vendetta
del prematuro defunto -: i piccoli polmoni del morto vengono proiettati sul
maxi schermo di quello scoglio preistorico, esili e stanchi; e poi l’immagine degli
occhi burattati dal liquido della tristezza e, ancora, i disegni arrembanti e
imprecisi (Giorgio pastrocchiava spesso il tratto di muro dietro il suo lettino:
briciole di arte parietale arcaica, forme semplici, linee grezze, siluette
animali; la sua vita era su quel pezzetto di muro nascosto, solo Francesca
sapeva). Quei ricordi mordaci svelano improvvisamente, al “geco” appeso al tufo,
la vera necessità di vivere. L’impellente risveglio muscolare dirige la ragazza
geco, ora scimmia abitata da uno spirito indomito, fino al promontorio,
finalmente la cima – salva! – una voce in lei deve ripeterglielo più volte per
poterci credere. Tutta la fatica, nell’atto estremo di sopravvivere a un
destino che si stava tingendo di nero, trasforma evidentemente il corpo di
Francesca, ora cereo, morente. Approdata sul cielo, il baratto fra la morte e
la vita è lo svenimento esamine, lassù a quell’altitudine che s’interpone fra
il mistero divino e ogni cosa che, sotto di esso, cerca semplicemente di
esistere. Sospesa sull’altipiano del mondo, ferita dalla colluttazione con la
pietra, esangue e sfranta, conquista piena vittoria sul cimitero dei sassi, che
l’attendeva ingordo da basso! La calura della luce perpendicolare è sfrontata
sul corpo lungo di Francesca che si discioglie veloce in migliaia di goccioline
compatte che tentano sgarbatamente di ricomporsi, come tante particelle di
mercurio.
- Ti prenderai
un’insolazione – qualcuno sta parlando?
Lontano, come al di fuori
di un sogno, la svenuta riconosce suoni umani. Ancora non ha ripreso del tutto
coscienza, i sensi non mettono a fuoco la percezione, che rimane sbiadita nella
nuvola dei dubbi. Qualcuno – ma chi? – le afferra con dolcezza una gamba;
questo particolare, “dolcezza”, le pare chiaro in quel fuligginoso stordimento
e sente un’insolita commozione, al tocco della mano sconosciuta. Il corpo di
Francesca tenta una ripresa enfatica, quasi un impulso Pavloviano, ma le
membra, estenuate e deboli, le impediscono la perfetta verticalità,
disequilibrio che la fa cadere nuovamente a terra. La deflagrazione ha lo
stesso effetto dell’acqua gelata: uno scoppio di occhi, le pupille protese per
la reazione – vanno strofinati quegli occhi senza visuale – e nel farlo
l’immagine insabbiata si schiara e diventa fin troppo nota davanti a lei.
L’onomatopea del grido riaccorpa
il sudore al mercurio della ragazza: - Giorgio!!!! –.